In Sardegna ci si deve andare quando si ha voglia di perdersi. Perdersi fra tracce di sentieri in mezzo ai ginepri, in mezzo a plateau rocciosi. Oppure perdersi in parete, cercando di decifrare le rughe del calcare verso lo spit successivo, o in cima, quando scopri che la sosta è da attrezzare su un cespuglio qualche metro più in là. Significa anche perdersi nella scelta sul cosa fare e dove andare, visto che poche altre aree al mondo offrono agli arrampicatori ingordi un menù così vasto: granito, basalto, calcare, vie lunghe, monotipi spittati, falesie trad e massi per il boulder.

Il nostro piano è molto semplice: fra il traghetto all’andata e quello al ritorno abbiamo dieci giorni a disposizione per scalare il più possibile, cercando di assaggiare i piatti più gustosi di quel menù, con una predilezione per i piatti a base di arrampicata trad e vie lunghe. Al porto di Livorno ci presentiamo in due, con un minivan carico di tutto il necessario per l’abbuffata: tre serie di friend, due di nut, rinvii quanto basta, mezze corde e corde intere, scarpette comode, scarpette scomode, pantaloni lunghi e corti, sacchi a pelo, pentole, una cassa di birra e una piantina di basilico. Un paio di macchina fotografica, tre rulli di pellicola a colore e uno in bianco e nero. E poi  Edo, che è uno di quegli amici che sono tali perché c’è intesa anche senza doversi parlare. Quello che succede dopo è una lunga successione di ricordi, in alcuni dei posti più belli in cui io sia stato con l’imbrago addosso e le scarpette nei piedi.

Ci siamo persi in mezzo alle forme oniriche della Valle della Luna, dove più di trent’anni fa gli scalatori migravano dalla Val di Mello alla ricerca di fessure e visioni, perlopiù indotte da sostanze allucinogene, anche se il paesaggio comunque poteva dare una mano. Abbiamo capito che forse avremmo dovuto portare friend più grossi, o semplicemente palle più grandi per affrontare quei tiri offwidth in cui proteggersi non era contemplato.

 

In Sardegna ci si deve andare quando si ha voglia di perdersi.

Perdersi fra tracce di sentieri in mezzo ai ginepri, oppure in mezzo a plateau rocciosi. Oppure perdersi in parete, cercando di decifrare le rughe del calcare verso lo spit successivo, o in cima, quando scopri che la sosta è da attrezzare su un cespuglio qualche metro più in là. Significa anche perdersi nella scelta sul cosa fare e dove andare, visto che poche altre aree al mondo offrono agli arrampicatori ingordi un menù così vasto: granito, basalto, calcare, vie lunghe, monotiri spittati, falesie trad e massi per il boulder.

Il nostro piano è molto semplice: fra il traghetto all’andata e quello al ritorno abbiamo dieci giorni a disposizione per scalare il più possibile, cercando di assaggiare i piatti più gustosi di quel menù, con una predilezione per i piatti a base di arrampicata trad e vie lunghe. Al porto di Livorno ci presentiamo in due, con un minivan carico di tutto il necessario per l’abbuffata: tre serie di friend, due di nut, rinvii quanto basta, mezze corde e corde intere, scarpette comode, scarpette scomode, pantaloni lunghi e corti, sacchi a pelo, pentole, una cassa di birra e una piantina di basilico. Una macchina fotografica, tre rulli di pellicola a colore e uno in bianco e nero. E poi  Edo, che è uno di quegli amici che sono tali perché c’è intesa anche senza doversi parlare. Quello che succede dopo è una lunga successione di ricordi, in alcuni dei posti più belli in cui io sia stato con l’imbrago addosso e le scarpette nei piedi.

Ci siamo persi in mezzo alle forme oniriche della Valle della Luna, dove più di trent’anni fa gli scalatori migravano dalla Val di Mello alla ricerca di fessure e visioni, perlopiù indotte da sostanze allucinogene, anche se il paesaggio comunque poteva dare una mano. Abbiamo capito che forse avremmo dovuto portare friend più grossi, o semplicemente palle più grandi per affrontare quei tiri offwidth in cui proteggersi non era contemplato. 

 

In Sardegna ci si deve andare quando si ha voglia di perdersi. Perdersi fra tracce di sentieri in mezzo ai ginepri, oppure in mezzo a plateau rocciosi. Oppure perdersi in parete, cercando di decifrare le rughe del calcare verso lo spit successivo, o in cima, quando scopri che la sosta è da attrezzare su un cespuglio qualche metro più in là. Significa anche perdersi nella scelta sul cosa fare e dove andare, visto che poche altre aree al mondo offrono agli arrampicatori ingordi un menù così vasto: granito, basalto, calcare, vie lunghe, monotipi spittati, falesie trad e massi per il boulder.

Il nostro piano è molto semplice: fra il traghetto all’andata e quello al ritorno abbiamo dieci giorni a disposizione per scalare il più possibile, cercando di assaggiare i piatti più gustosi di quel menù, con una predilezione per i piatti a base di arrampicata trad e vie lunghe. Al porto di Livorno ci presentiamo in due, con un minivan carico di tutto il necessario per l’abbuffata: tre serie di friend, due di nut, rinvii quanto basta, mezze corde e corde intere, scarpette comode, scarpette scomode, pantaloni lunghi e corti, sacchi a pelo, pentole, una cassa di birra e una piantina di basilico. Un paio di macchina fotografica, tre rulli di pellicola a colore e uno in bianco e nero. E poi  Edo, che è uno di quegli amici che sono tali perché c’è intesa anche senza doversi parlare. Quello che succede dopo è una lunga successione di ricordi, in alcuni dei posti più belli in cui io sia stato con l’imbrago addosso e le scarpette nei piedi.

Ci siamo persi in mezzo alle forme oniriche della Valle della Luna, dove più di trent’anni fa gli scalatori migravano dalla Val di Mello alla ricerca di fessure e visioni, perlopiù indotte da sostanze allucinogene, anche se il paesaggio comunque poteva dare una mano. Abbiamo capito che forse avremmo dovuto portare friend più grossi, o semplicemente palle più grandi per affrontare quei tiri offwidth in cui proteggersi non era contemplato.

 

Ci siamo persi nella bellezza del calcare in Ogliastra, dove abbiamo salito tre vie lunghe spittate su altrettante pareti.

“La mia Africa” al Monte Oddeu è un pezzo di montagna rubato al Verdon, dove con un avvicinamento ridicolo ci si può viziare con tiri su calcare grigio perfetto e un’infinità di vie su gradi differenti. Poi è stato il turno del monolite di Pedralonga. “Marinaio di Foresta” non è una via dura, anzi, e i tiri non sono sempre così divertenti. Inoltre la roccia è incredibilmente ruvida e dolorosa, e anziché cercare le prese più buone ci si affida a quelle meno taglienti. E allora perché farla? Beh, perché scalare con l’intero golfo del Baunei davanti ai proprio occhi, pochi metri sopra l’acqua del mare, è un’esperienza multisensoriale che vi ricorderete una volta a casa. E poi perché, proprio di fronte, a pochi chilometri, si stagliava la parete che avremmo affrontato il giorno dopo, la Punta Giradili. La prima volta che ci siamo passati sotto è stato qualche anno fa, quando avevamo fatto il Selvaggio Blu, il trekking che da Pedralonga va fino a Cala Gonone lungo cinquanta chilometri di costa selvaggia e sentieri pressoché assenti. 
All’epoca avevamo giusto dato un’occhiata agli spit che si vedevano qua e là, fantasticando su un possibile futuro dove saremmo tornati per scalare quella parete di cui sapevamo giusto il nome.

Mediterraneo è la via con cui siamo saliti in cima a Punta Giradili, probabilmente uno dei più bei pezzi di roccia affacciati sul mare da cui la via prende il nome. La roccia è un calcare, prima grigio nella parte inferiore, poi rosso in quella superiore, di una qualità che rasenta la perfezione. Dalla cima, poi, non ci si non sedere per qualche istante e lasciare lo sguardo libero di vagare verso chilometri e e chilometri di roccia e cielo, con il blu del mare a fare da margine a bordo pagina.

Dopo le emozioni della Giradili abbiamo continuato a muoverci verso il sud dell’isola, dove sulla costa del Supramonte chi è disposto a camminare un’ora può arrivare alla falesia di Jurassic Park, una parete granitica persa letteralmente in mezzo al nulla. Qui eravamo venuti apposta per salire in cima al Dillosauro, il cui dito è diventato famoso per la sua forma spettacolare, essendo poco più largo di una sedia. Per arrivarci bisogna percorrere una lunga fessura offwidth, da affrontare in dulfer o, per i puristi, a incastro di corpo. Oltre al Dillosauro, nella falesia sono presenti anche altri itinerari, sia spittati che trad, su cui l’arrampicata è prevalentemente di incastro.

A questo punto sono già passati parecchi giorni e non ci siamo ancora fermati: il giorno di riposo che avevamo previsto è stato sacrificato a Jurassic Park, perché abbiamo voluto scalare ben più di quanto la pelle delle nostre dita ci avrebbe consigliato di fare. Lo sapete meglio di me, però, davanti a certe pareti le mani cominciano a sudare e vorresti solo infilarti l’imbrago e partire.

La prossima portata sarebbe stata una dei piatti principali del nostro viaggio: l’area trad di Capo Pecora, sulla costa sud-ovest dell’isola. Qui nel corso degli ultimi anni è stata esplorata una vasta zona di torrioni granitici alti fra i 15 e i 50 metri, situati direttamente sul mare, le cui fessure orizzontali e verticali si prestano perfettamente alla posa dei friend. L’unico problema potrebbe essere il vento: in caso di maestrale, infatti, la salsedine si posa sul granito rendendolo scivoloso e inoltre le onde potrebbero rendere l’accesso un po’ più “complicato”.

 

 


Non ci sono molte parole sufficienti a descrivere la bellezza di questo luogo, a partire dal tratto di costa che bisogna percorrere a piedi per arrivare alla falesia vera e propria. L’immaginario dell’arrampicata in Sardegna è a base di grandi pareti calcaree e boschi selvaggi, qui invece si potrebbe essere in Irlanda, se non fosse per gli odori della macchia mediterranea. Quando ci siamo stati, poi, il mare in burrasca e la luce del tramonto rendevano il tutto ancora più emozionante, il cuore pieno di uno spettacolo di cui eravamo gli unici spettatori.

È uno strano gioco, l’arrampicata. Certi giorni ti senti solo pesante ed impacciato, e l’unico ricordo che porti a casa è la tua frustrazione che ti fa ignorare tutto il resto. Altri giorni, invece, è proprio “il resto” a renderti felice, nonostante tu in quel momento stia scalando su gradi poco più che da principianti. E a Capo Pecora, al pomeriggio, quando il sole si abbassa e le onde si alzano, quel “resto” si trasforma in una luce dorata e odore di salsedine, da godersi mentre con una mano cerchi il pezzo più adatto a proteggerti nel granito bianco e grigio.

 

Non ci sono molte parole sufficienti a descrivere la bellezza di questo luogo, a partire dal tratto di costa che bisogna percorrere a piedi per arrivare alla falesia vera e propria. L’immaginario dell’arrampicata in Sardegna è a base di grandi pareti calcaree e boschi selvaggi, qui invece si potrebbe essere in Irlanda, se non fosse per gli odori della macchia mediterranea. Quando ci siamo stati, poi, il mare in burrasca e la luce del tramonto rendevano il tutto ancora più emozionante, il cuore pieno di uno spettacolo di cui eravamo gli unici spettatori.

È uno strano gioco, l’arrampicata. Certi giorni ti senti solo pesante ed impacciato, e l’unico ricordo che porti a casa è la tua frustrazione che ti fa ignorare tutto il resto. Altri giorni, invece, è proprio “il resto” a renderti felice, nonostante tu in quel momento stia scalando su gradi poco più che da principianti. E a Capo Pecora, al pomeriggio, quando il sole si abbassa e le onde si alzano, quel “resto” si trasforma in una luce dorata e odore di salsedine, da godersi mentre con una mano cerchi il pezzo più adatto a proteggerti nel granito bianco e grigio.


Il nono giorno è stato quello in cui abbiamo dovuto tirare fuori la bandiera bianca: iniziavamo ad avere dolori qua e là e già dal ritmo pigro con cui abbiamo fatto colazione abbiamo capito che forse sarebbe stato meglio dedicarsi ad altro. Prima di tutto, bisogna dedicarsi alle pulizie del campo, ovvero il tentativo -inutile, forse- di dare un senso alla disorganizzazione del nostro furgoncino. Perché in fondo per arrampicare uno deve aver voglia di disorganizzare la propria vita, prendersi le ferie in periodi strani dell’anno e sbuffare quando gli amici “normali” ti chiedono se anche questo weekend te ne andrai in montagna. Poi, cercare di capire come sfruttare quella giornata. Siamo così finiti a camminare tra i murales di Orgosolo, un paese nel cuore del Supramonte dove ad un passato fatto di guerre tra i clan e sparatorie è subentrato un presente di arte e gastronomia. Ad essere sinceri, siamo anche finiti ad una degustazione di Cannonau, sentendoci decisamente a disagio. L’abbigliamento ordinato della comitiva di francesi che era con noi faceva decisamente a pugni con i nostri pantaloni sporchi e i capelli spettinati, ma sulla bontà del vino eravamo tutti dalla stessa parte. 

L’ultima giornata è stata forse la più bella del viaggio, probabilmente anche perché non avevamo assolutamente alcuna aspettativa su quello che avremmo trovato. La meta era il panettone di Lu Lurusincu, in Gallura, a pochi chilometri dal porto di Olbia. Sulla guida veniva solo citato come uno dei più bei graniti dell’isola, ma oltre a quello non si trovava nient’altro. 

 

Il nono giorno è stato quello in cui abbiamo dovuto tirare fuori la bandiera bianca: iniziavamo ad avere dolori qua e là e già dal ritmo pigro con cui abbiamo fatto colazione abbiamo capito che forse sarebbe stato meglio dedicarsi ad altro. Prima di tutto, bisogna dedicarsi alle pulizie del campo, ovvero il tentativo -inutile, forse- di dare un senso alla disorganizzazione del nostro furgoncino. Perché in fondo per arrampicare uno deve aver voglia di disorganizzare la propria vita, prendersi le ferie in periodi strani dell’anno e sbuffare quando gli amici “normali” ti chiedono se anche questo weekend te ne andrai in montagna. Poi, cercare di capire come sfruttare quella giornata. Siamo così finiti a camminare tra i murales di Orgosolo, un paese nel cuore del Supramonte dove ad un passato fatto di guerre tra i clan e sparatorie è subentrato un presente di arte e gastronomia. Ad essere sinceri, siamo anche finiti ad una degustazione di Cannonau, sentendoci decisamente a disagio. L’abbigliamento ordinato della comitiva di francesi che era con noi faceva decisamente a pugni con i nostri pantaloni sporchi e i capelli spettinati, ma sulla bontà del vino eravamo tutti dalla stessa parte. 

L’ultima giornata è stata forse la più bella del viaggio, probabilmente anche perché non avevamo assolutamente alcuna aspettativa su quello che avremmo trovato. La meta era il panettone di Lu Lurusincu, in Gallura, a pochi chilometri dal porto di Olbia. Sulla guida veniva solo citato come uno dei più bei graniti dell’isola, ma oltre a quello non si trovava nient’altro. 


A cercare su internet si trovava pressoché nessuna informazione, e poco altro sul massiccio delle Torri di San Pantaleo: a questo punto tanto valeva andare a dare un’occhiata, armati di friend, il più possibile, e cordini da abbandono, visto che in Gallura la maggior parte degli itinerari si presenta come completamente schiodato, soste comprese e spesso le discese a piedi sono più complicate della salita, così come l’avvicinamento. E così, quasi per caso, siamo finiti a scalare lungo la fessura perfetta de Il passo del giaguaro: 45 metri a incastro di mano e pugno, seguiti da due tiri in placca su cui l’imperativo era fidarsi dei piedi e rimanere tranquilli. Così bella che l’abbiamo ripetuta due volte, per poi dedicarci anche alla Fessura del Traditore, anch’essa incredibile. Poi, senza neanche il tempo di levarci gli imbraghi, siamo dovuti correre al furgone, c’era un traghetto da prendere, purtroppo.

La Sardegna ci ha dato quello che volevamo: una serie di vie da antologia, negli stili più diversi, quasi sempre da soli. Sicuramente il mondo dell’arrampicata potrà fare a meno delle nostre (scarse) performance, ma in fondo non siamo noi che porteremo avanti il livello. A noi comuni mortali spetta il dovere, al massimo, di difendere quelli che sono i valori alla base di questo gioco, che ne costituiscono anche un po’ le regole: curiosità, amicizia, amore per ciò che ci circonda e, soprattutto, la voglia di perdersi.

 

A cercare su internet si trovava pressoché nessuna informazione, e poco altro sul massiccio delle Torri di San Pantaleo: a questo punto tanto valeva andare a dare un’occhiata, armati di friend, il più possibile, e cordini da abbandono, visto che in Gallura la maggior parte degli itinerari si presenta come completamente schiodato, soste comprese e spesso le discese a piedi sono più complicate della salita, così come l’avvicinamento. E così, quasi per caso, siamo finiti a scalare lungo la fessura perfetta de Il passo del giaguaro: 45 metri a incastro di mano e pugno, seguiti da due tiri in placca su cui l’imperativo era fidarsi dei piedi e rimanere tranquilli. Così bella che l’abbiamo ripetuta due volte, per poi dedicarci anche alla Fessura del Traditore, anch’essa incredibile. Poi, senza neanche il tempo di levarci gli imbraghi, siamo dovuti correre al furgone, c’era un traghetto da prendere, purtroppo.

La Sardegna ci ha dato quello che volevamo: una serie di vie da antologia, negli stili più diversi, quasi sempre da soli. Sicuramente il mondo dell’arrampicata potrà fare a meno delle nostre (scarse) performance, ma in fondo non siamo noi che porteremo avanti il livello. A noi comuni mortali spetta il dovere, al massimo, di difendere quelli che sono i valori alla base di questo gioco, che ne costituiscono anche un po’ le regole: curiosità, amicizia, amore per ciò che ci circonda e, soprattutto, la voglia di perdersi.

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